
Un dolore inutile quello di Elettra, un dolore che la fa star male, la rende un fantasma senza anima, scarnificata, consunta, quasi blasfema. Elettra è gonfia di rabbia evasa, graffia senza artigli, canta senza voce, avrebbe un disperato bisogno di un abbraccio ma sguscerebbe via da quanto è scarna: le chiedono di diventare ragionevole, ma lei rifiuta il cosiddetto viver civile, l’accettazione della mancanza che le chiede Crisotemi.
Sofocle la ricopre di nebbia, Roberto Andò la disegna sabbiosa, con i colori della terra, profuga tra le profughe, mai benevola nei confronti della sorella – molto borghese perbenista – e soprattutto della madre, sontuosamente bella. È una tragedia dei ruoli, della mancanza di posizioni, perché ogni personaggio sembra fuori dal posto che gli spetta: la regina è un’assassina, il re un traditore, la figlia vaga come una bestia, il figlio uccide per dovere.
Debutto con standing ovation quello di «Elettra» che ieri ha aperto il nuovo ciclo delle tragedie in un Teatro Greco pieno all’inverosimile. Un allestimento di pietra, di pietre: la reggia degli Atridi è crollata su un terreno brullo e morto, ogni fregio è distrutto, il talamo nuziale giace stracciato; Clitennestra chiede di essere ascoltata: la sua è giustizia retrodatata, Agamennone ha sgozzato Ifigenia sacrificandola alla spedizione contro Troia, quindi lei ha soltanto rimesso le caselle al loro posto.
Se Eschilo condannava a monte il matricidio, Sofocle chiede il dibattito, enuncia le tesi, arriva a una sentenza aperta: Roberto Andò la approva, traduce la tragedia nel confronto straordinario tra le due donne, un duello di parola che recupera teatralità nel finale; ma, devoto alla lezione greca, affida il giudizio e il racconto al coro delle profughe.
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