Davide Livermore, l’uomo dei record, per numero di inaugurazioni, alla Scala, come a Siracusa, numero di biglietti venduti, è tornato per il terzo anno al Teatro Greco per firmare la regia di «Agamennone» e completare così la trilogia dell’Orestea di Eschilo. In scena troveremo una grande parete specchiante. Ci troveremo dunque tutti dentro la tragedia? «Sì entreremo tutti, attori e pubblico - afferma il regista -. Non apparteniamo certo agli Atridi, ma ciascuno di noi si trova a sciogliere nodi dolorosi che si sommano nella vita di tutti. Lo specchio ha un’altra funzione, consentire una sorta di abbraccio collettivo, circolare, che possiamo condividere con tutto il teatro che, non dimentichiamolo mai, è luogo di una comunità che condivide la stessa identità. Agamennone è l’inizio di tutto, è l’archetipo da cui tutto nasce, è l’inizio della catena di delitti, ma ancor prima c’era la causa di tutto: il sacrificio di Ifigenia, la figlia giovane e innocente, morta per far partire le navi achee. E infine lo specchio è il limite che separa il nostro mondo dall’Ade». In Coefore Oreste ucciderà la madre Clitennestra e il suo amante Egisto e le Erinni lo perseguiteranno. Solo con “Eumenidi» le furie vendicative diverranno bene-fattrici e troveranno posto ad Atene, ma grazie alla nascita del Tribunale e della Giustizia. “La giustizia - spiega Davide Livermore - deve fondarsi su qualcosa di altissimo, sugli dei e i valori che ciascun uomo ha nel cuore. L’uomo deve tendere in maniera struggente verso l’idea di Giustizia, pura sapendo che opera degli uomini e quindi fallace, pur sapendo che l’imperfezione degli uomini genera nel cuore i demoni, ma occorre credere che i demoni si possono vincere, è una battaglia, ma va vinta, in nome proprio della Giustizia».
Di Livermore, che è anche un musicista, gli attori dicono che è un metronomo e tutti coloro che partecipano allo spettacolo diventano come un’orchestra che deve suonare con la massima esattezza. «Agamennone» è stata calata negli anni Trenta, posto che Coefore ed Eumenidi era negli anni Quaranta e si potranno vedere insieme il 9 luglio, di filata, per circa 4 ore di spettacolo. «Gli anni Trenta - aggiunge il regista - perché possedevano un’estetica neoclassica, costanti riferimenti alla armonia e alla simmetria tipica del mondo greco. Le due successive annunciano la fine del mondo e io avevo scelto il periodo della seconda guerra mondiale. Ma se ci fate caso l’architettura degli Stati in mano alle dittature usa sempre riferimenti allo stile neoclassico. Mi chiede quanta libertà ci sia nel mio lavoro. Nessuna libertà, c’è il servire un testo e un autore, è vero però che il teatro è sempre avanguardia, è sempre contemporaneo. Quindi una libertà all’interno di un contesto molto serrato». Ai suoi attori ha dato un’indicazione che è «Il respiro vi renderà autentici nello sguardo di chi vi osserva». Il respiro indica la sincerità delle emozioni che gli attori vivono in scena. Ma tra la Scala e Siracusa? «Sono le mie due passioni - conclude Livermore - anzi aggiungo il Teatro Stabile di Genova che dirigo e che coproduce lo spettacolo. Ma qui quando arrivo nelle mattine di maggio e vedo i fenicotteri rosa, all’aria aperta, sulle pietre dei tragici, l’emozione è ineguagliabile».
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