Piercamillo Davigo (nella foto) ha «portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull’operato della Procura della Repubblica» di Milano «e sui due colleghi del Csm, dottori Mancinetti e Ardita». Lo scrive la Corte d’Appello di Brescia nelle motivazioni, da poco depositate, della sentenza con cui, il 7 marzo, ha confermato per l’ex pm di Mani Pulite ed ex consigliere del Csm la condanna ad un anno e 3 mesi, con pena sospesa e non menzione, per la vicenda dei verbali dell’avvocato di Augusta Piero Amara su una inesistente Loggia Ungheria. Condanna per rivelazione di segreto d’ufficio per aver fatto circolare quelle carte «scottanti» o il loro contenuto tra i componenti di Palazzo dei Marescialli e ai danni anche del suo ex collega Sebastiano Ardita, pure lui siciliano, di Catania, parte civile nel processo, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici.
I giudici di secondo grado nelle 115 pagine di motivazioni spiegano che Davigo - il quale ha sempre detto di avere agito «in buona fede» e per «ripristinare la legalità» - ha messo in atto «una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell’effetto finale di una fuga di notizie “senza eguali precedenti”, già stigmatizzata dall’autorità giudiziaria umbra».
Al centro della vicenda c’erano i verbali su una inesistente loggia resi da Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020 nell’ambito dell’indagine milanese sul cosiddetto falso complotto Eni. Verbali consegnati a Davigo nell’aprile successivo dal pm di Milano Paolo Storari (assolto in via definitiva) per autotutelarsi di fronte, a suo dire, ad una presunta inerzia dei vertici del suo ufficio.
I giudici d’appello spiegano che «non è compito di questa Corte comprendere la ragione» per cui Davigo abbia agito in quel modo, anche perché il movente per il reato di rivelazione è «irrilevante».
Davigo, con l’avvocato Davide Steccanella, presenterà ricorso in Cassazione contro la condanna. «Un avvocato - commenta Steccanella - le sentenze non le commenta, se non le condivide le impugna. A questo punto l’ultima parola spetterà alla Corte di Cassazione».
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